24 gennaio 2007

LE FESTE ROMANE: LA CANDELORA

La festa della Candelora fu istituita da Papa Gelasio I°, intorno alla fine del V° secolo, e solo dopo aver ottenuto dal Senato Romano l’abolizione dei “Lupercalia”, l’antico rito della purificazione che chiudeva l’anno secondo il calendario allora in vigore. Con i Lupercalia si cancellavano tutte le "impurità" accumulate durante l’anno e ci si presentava al nuovo anno “purificati”.
Il mese di Febbraio era l’ultimo del calendario romano, quello che chiudeva l'anno: il termine “Februarius” (devivante da “februa”) significava “purificazione”.
Gli antichi romani erano un popolo di contadini e pastori: quindi per loro le piante e gli animali erano di importanza fondamentale. Gran parte delle divinità romane avevano il compito di favorire il raccolto, la semina, la procreazione. Le celebrazioni in onore delle varie divinità, quindi, si svolgevano in periodi legati ai ritmi della terra e della vita agricola, per propiziare gli eventi del ciclo naturale. Il quindicesimo giorno di Februarius venivano inaugurati i Lupercalia, le festività in onore del Dio Luperco, il quale, secondo la tradizione, sorvegliava le greggi e le proteggeva dall'assalto dei lupi. Il culto di Luperco era molto importante ed i suoi sacerdoti, godevano di gran prestigio: infatti, erano ammessi al sacerdozio in onore del dio soltanto i membri delle famiglie più importanti della città.
Durante i Lupercalia i sacerdoti, definiti “Luperci” (scacciatori dei lupi), sacrificavano delle pecore in una grotta ai piedi del Palatino dove, secondo tradizione, la lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Con una spada insanguinata del sangue di pecora toccavano poi la fronte di due ragazzi di origina patrizia, che detergevano subito dopo con un panno di lana, imbevuto di latte. A quel punto i due ragazzi dovevano indossare le pelli degli animali sacrificati; con la medesima pelle venivano realizzate delle striscie (dette februa o anche amiculum Iunonis) con le quali, correndo attorno alle pendici del Palatino, dovevano percuotere chiunque incontrassero, in particolare le donne, che si offrivano volontariamente ad essere sferzate per purificarsi e ottenere la fecondità. La comunità intera, così facendo, si purificava e si preparava ad accogliere la primavera ed i suoi frutti. Era, in fin dei conti, una cerimonia tesa a propiziare la fecondità della terra, degli animali e dell'uomo alle porte della primavera.



Come detto Papa Gelasio I° "cristianizzò" i Lupercalia, mantenendone il significato di rito purificativo, dedicandolo però alla Vergine", e ne fisso', confermando l'anica tradizione, anche il periodo del festeggiamento ai primi giorni di Febbraio. Il nome venne cambiato in “Festa delle Candele” (popolarmente chiamata “Candelora”), in quanto adottate come simbolo della purificazione dal Peccato Originale. In quest’occasione venivano benedetti delle candele, che i fedeli portavano in processione, dalle quali sarebbero stati protetti, soprattutto nel corso di forti temporali.

Nel Medioevo la festa raggiunse il suo culmine di importanza: infatti si svolgeva una lunghissima processione che partiva da Sant'Adriano e attraversava i fori di Nerva e di Traiano, passando per il colle Esquilino, fino a raggiungere la basilica di Santa Maria Maggiore. In tempi più recenti, la processione si accorciò, svolgendosi soltanto intorno alla Basilica di San Pietro. In quell'occasione, all'interno della Basilica, sull'altare venivano poste delle candele con un fiocco di seta rosso e argento e con lo stemma papale. Tre di queste venivano scelte e la più piccola era consegnata al Papa, mentre le altre due andavano al diacono e al suddiacono. Una volta benedetti i ceri, il Papa consegnava la sua candela al cameriere personale, insieme con il paramano di seta bianca che gli era servito per proteggersi le mani dalla cera calda, e passava alla benedizione dei rimanenti ceri.
Tornando al significato religioso della Candelora, essa ricorda il rito di purificazione che la Vergine Maria seguì dopo aver dato alla luce Gesù, in conformità alla legge ebraica: nel Levitico è scritto, infatti, che ogni madre che avesse dato alla luce un figlio maschio sarebbe stata considerata impura per sette giorni, e che per altri trentatré non avrebbe dovuto partecipare a qualsiasi forma di culto. La Candelora si festeggia infatti il 2 Febbraio: 40 giorni dopo la nascita di Gesù.

Oggi la Candelora segna, per lo più ovunque, la fine dell'inverno, anche se con altri nomi: ad esempio in America è famosa la “Festa della Marmotta”, ricordata anche in un simpatico (anche se un po' angoscioso) film di qualche anno fa con Bill Murray; oppure "Festa dell’Orso" (in questo giorno infatti l'orso, secondo tradizione, si sveglierebbe dal letargo e uscirebbe fuori dalla sua tana per vedere come e' il tempo e valutare se sia o meno il caso di mettere il naso fuori).
Un proverbio, recentemente ricordato da Papa Giovanni Paolo II, recita "Candelora dell'inverno semo fora. Ma se piove e tira vento, dell'inverno semo drento", ossia: se il 2 febbraio il tempo è brutto l'inverno durerà un altro mese almeno. In questo senso la Candelora, che coincide, nel ciclo biologico/vegetativo, con la fine dell’Inverno, è anche legata ad alcune feste di origine agreste: in molti Paesi europei, infatti, si cucinano piatti specifici, che vengono offerti alla natura.

17 gennaio 2007

LE FESTE ROMANE: LA BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI

Il 17 Gennaio, giorno dedicato a Sant'Antonio Abate (protettore degli animali), si può ancora assistere, presso la Chiesa di Sant'Eusebio, in Piazza Vittorio Emanuele, alla Benedizione degli animali.


Fin dal medioevo venivano benedetti, in questa occasione, gli animali che aiutavano l'uomo nei lavori quotidiani, buoi, cavalli e somari, utili per i lavori nei campi e per il trasporto di merci, ma anche animali da cortile, come galline, conigli eccetera, destinati... alla cucina.
La benedizione degli animali, per esorcizzare eventuali "presenze demoniache", nacque perché l'egiziano Antonio, vissuto tra il III e il IV secolo, era stato messo a dura prova dal demonio, che gli si presentava in forma di animale, spesso come porco, tanto che l'iconografia da sempre lo ritrae con un maiale accanto. E così, davanti alla chiesa a lui dedicata, fin dalle prime luci dell'alba si riunivano in gran numero, come ricorda il Belli, "porchi, somari, pecore e cavalli [...] pieni de fiocchi bianchi e rossi e gialli ".


Non mancavano anche le lussuose carrozze di cardinali e nobili e gli elefanti dei circhi. Era sottinteso che chi faceva benedire le proprie bestie doveva lasciare un'offerta alla chiesa, in natura i contadini, in somme (anche alte) di denaro i nobili.
Molte sono le testimonianze di stranieri, tra cui quella di Goethe, e la rituale "processione" venne immortalata anche da artisti come Thomas e Bartolomeo Pinelli. Il giro di interessi economici legato alla cerimonia divenne così rilevante da indurre i parroci di altre chiese a tentare di "farlo proprio", approfittando del fatto che alcuni nobili, elargendo lauti compensi, chiedevano funzioni riservate ai propri animali. Nel 1831 il Cardinal Vicario arrivò a minacciare la sospensione "a divinis" per i preti che benedicevano animali senza autorizzazione. L'afflusso di animali sul sagrato della chiesa di Sant'Antonio era enorme. Tanto che, come ricordano le cronache di allora, la benedizione si prolungava per un intero "ottavario" (otto giorni). Oggi, ovviamente, il rito è destinato ai soli animali domestici (cani, gatti, canarini, pesci), magari con qualche tocco esotico come pappagalli o serpenti. Il rito della benedizione, che si svolgeva di fronte alla vicina chiesa di Sant’Antonio Abate, sull’attuale via Carlo Alberto, agli inizi del Novecento, per problemi di traffico, venne trasferito davanti alla chiesa di Sant’ Eusebio.
La tradizione vuole che la chiesa di Sant'Eusebio, sorga sull’abitazione dove il sacerdote Eusebio, rinchiusovi per sette mesi dall’imperatore Costanzo II, morì di stenti nel 353. Causa della condanna era stato il rimprovero rivolto dallo stesso Eusebio all’allora papa Liberio per la debolezza dimostrata nei confronti dell’arianesimo professato dall’imperatore.
Destinata da Sisto IV nel 1471 all’ordine dei Celestini, fu restaurata più volte, insieme all’attiguo monastero. L’interno originale è stato completamente trasfigurato da rifacimenti del 1600, da quelli settecenteschi e dalle ulteriori modifiche apportate alla fine dell’Ottocento. Maggiore attenzione ha ricevuto la parte esterna della chiesa. Recentemente il Comune di Roma ha provveduto ad una ripavimentazione a sampietrini dell'area antistante la chiesa.

09 gennaio 2007

VIE DI ROMA: PASSEGGIANDO PER VIA GIULIA

In questo caldo inverno è un piacere passeggiare, la domenica mattina, per le vie di Roma.
Domenica scorsa abbiamo passeggiato in una delle strade più affascinanti e piene di storia: Via Giulia.



Via Giulia è sempre stata una via dai molti nomi: nel Medioevo era chiamata "magistralis", perché, partendo da Castel Sant’Angelo, era una delle vie “maestre” del centro storico, anche se sconnessa e fangosa; dopo la sua ripavimentazione, operata da Sisto IV della Rovere nel 1478, fu chiamata "via mercatoria", perché collegava la zona “finanziaria” di Castel Sant’Angelo (Via dei Banchi Vecchi e Via dei Banchi Nuovi) con i mercati di Campo de Fiori e di Piazza Navona. Come la maggior parte delle "vie maestre" Via Giulia non ha marciapiedi. Sotto Giulio II°, che all’inizio del XVI° secolo elaborò un programma di “Renovatio Romae” allo scopo di rinnovare e modernizzare le vecchie strutture medievali della città, e dopo le “sistemazioni” apportatevi dal Bramante, che la resero la più lunga strada di Roma a tracciato rettilineo (circa un 1 chilometro), venne denominata prima “via Recta” (univa, infatti, in modo rettilineo il Campidoglio al Vaticano) e poi "strada Julia" dal nome del papa che ne aveva promosso la riqualificazione. Giulio II° aveva infatti intenzione di far edificare lungo questa strada un gigantesco palazzo, al fine di poter riunire tutte le corti giudiziarie, fino allora sparse in diverse sedi, e tutti i notai, per farlo diventare il vero e proprio fulcro della vita amministrativa cittadina e voleva anche porre una di fronte all’altra le vie “Rectae” e “Latae” (Via della Lugara e Via Giulia), per collegare, sulla sponda destra del Tevere, la zona dei Borghi a Trastevere e, sulla sponda sinistra, unificare la zona commerciale dei Banchi Vecchi e Nuovi, dando così vita ad una vera e propria “via dei commerci e delle pubbliche relazioni”. In pratica l’intento di Giulio II° era quello di utilizzare l’attività urbanistica ed edilizia come strumento di propaganda e segno di autorità. Lungo Via Giulia sorsero palazzi di famiglie (soprattutto di origini toscane) tra le più importanti a Roma: dai Sacchetti ai Ricci, dai Falconieri ai Chigi, ai Farnese, agli Strozzi ed agli Odescalchi, a testimonianza della notevole importanza della via. Nel 1613, sotto Paolo V°, venne edificato il Fontanone di Ponte Sisto (demolito poi nel 1879, durante i lavori per la costruzione dei muraglioni del Tevere, e “rimontato” una ventina d’anni dopo in Piazza Trilussa.


Il Fontanone di Ponte Sisto in Piazza Trilussa

In questo periodo la strada diventa spesso scenario, soprattutto d’estate, per feste e spettacoli: proprio d’estate, in particolare, veniva chiuso il foro di scarico della fontana di Ponte Sisto e l’acqua allagava lunghi tratti della strada, creando divertimento e refrigerio per il popolo ed i nobili, che vi passavano in carrozza. Vennero perfino posti nella via dei blocchi di travertino grezzo soprannominati dal popolo "sofà di Via Giulia". La costruzione dei muraglioni del Tevere avvenuta, come detto, dopo il 1870 su progetto dell’architetto Emilio Canevari per arginare le frequenti piene del Tevere, stravolse la via: sparirono le case lungo il fiume, i palazzi vennero ridimensionati o rasi al suolo, spostata la fontana di Ponte Sisto.
Via Giulia, curiosamente, non fa da confine tra due rioni, come moltre altre strade del centro storico, ma è addirittura "divisa" a metà, per lunghezza, tra due dei rioni più importanti di Roma: da Piazza dell'Oro (dove era l'imbocco di una grotta che si credeva fosse uno degli accessi all'Inferno, visto che da essa uscivano dei fumi maleodoranti, probabilmente provenienti dalle vicine acque del Tevere) e fino all'incrocio con la via delle Carceri la via appartiene al rione Ponte, da qui all'estremità meridionale appartiene al rione Regola. Proprio in Piazza dell'Oro (dal nome di una nobile famiglia che in quella zona aveva dei possedimenti fino al XVII° secolo), all'imboccatura della voragine che immetteva nella grotta da cui provenivano i vapori sulfurei, in epoca romana si svolgevano dei riti "satanici" della durata di tre giorni e tre notti: durante le cerimonie, officiate da sacerdoti vestiti di nero, venivano sacrificati animali dal pelo scuro e 27 ragazzi e 27 ragazze costituivano una processione intonando dei canti. Questo rito si svolse addirittura nel V° secolo a.C. e, dopo essere stato sospeso, venne ripreso nel 17 d.C. proprio su impulso dell'imperatore Augusto.
Partendo da Piazza Pallotti, addossata al muro, troviamo la fontana del Mascherone, che fa da fondale all'antistante via omonima.



La fontana del Mascherone

La fontana si potè costruire agli inizi del Seicento, quando Paolo V inaugurò il nuovo acquedotto dell'Acqua Paola. La fontana, di autore ignoto, fu realizzata dai Farnese, a scopo di beveratore pubblico, molto probabilmente nello stesso periodo dell'adattamento delle due vasche di piazza Farnese a fontane, nel 1626. Originariamente rimaneva isolata e arretrata di qualche metro in una specie di piccola piazza: la trasformazione avvenne alla fine dell'Ottocento in occasione dei lavori di costruzione dei muraglioni del Tevere. E' costituita da un'antica vasca rettangolare in porfido, di età romana, al di sopra della quale si innalzano due grosse volute sormontate da palle di travertino; nel mezzo è posto il grosso Mascherone in marmo bianco, anch'esso di età romana, dalla cui bocca getta l'acqua che si raccoglie in un sottostante catino a forma di conchiglia.
Più avanti la via è attraversata dall’Arco Farnese che, secondo il progetto di Michelangelo, avrebbe dovuto congiungere i giardini di palazzo Farnese alla Villa Farnesina, sull'altra sponda del Tevere.


L'Arco Farnese e la chiesa di Santa Maria dell'Orazione e Morte







Subito a sinistra dell’arco è la macabra facciata della chiesa di S.Maria dell'Orazione e Morte, dove una targa ricorda "Hodie mihi, cras tibi" ("Oggi a me, domani a te"). La chiesa fu commissionata da una confraternita fondata per raccogliere i corpi di sconosciuti, nelle vie della città e nella campagna romana, e provvedere loro con cristiana sepoltura. Costruita nel 1575, fu ristrutturata ed ampliata da Ferdinando Fuga nel 1737. Le porte ed i finestroni sono decorati con teschi alati.
La chiesa ed il sottostante cimitero sono visitabili il martedì, giovedì e sabato dalle 15,30 alle 17.





Sull'ingresso c'è una clessidra, a simboleggiare la limitata durata della vita terrena, e a destra una lapide di marmo mostra la Morte (che tiene in mano ancora la clessidra), adagiata altera su una panca, che contempla un cadavere disteso a terra. Nei sotterranei esisteva un cimitero, rimosso per la costruzione dei muraglioni del Tevere, composto di stanzoni decorati con le ossa, secondo un macabro uso di cui a Roma (ma anche a Napoli) esistono altri esempi (vedi la Cripta deli Cappuccini della chiesa della Concezione). Adiacente alla chiesa è Palazzo Falconieri: venduto nel 1576 alla famiglia Odescalchi. Nel 1606 fu acquistato dai Farnese e poi ceduto ad Orazio Falconieri, che ne affidò il restauro a Francesco Borromini nel 1650. Questi ampliò l'edificio e vi aggiunse il cornicione decorato con elmi, scudi, corazze ed elementi dello stemma degli Odescalchi (leone, aquila e incensiere).





Ai lati della facciata, inoltre, vi sono due erme con testa di falco e seni, che alludono alla famiglia Falconieri.


E c'è ancora chi dice che le donne non sono delle "aquile"

Sull'altro lato della strada, vi è la settecentesca chiesa della colonia senese a Roma, Santa Caterina da Siena. È a due ordini con alto portale con lo stemma di Siena e, ai lati del finestrone centrale, Romolo e Remo con la lupa, altro simbolo di Siena perché questa città, secondo la leggenda, fu fondata dal meno fortunato dei due gemelli, Remo.






La chiesa di Santa Caterina da Siena

Le demolizioni risparmiarono la secentesca chiesetta di San Filippo Neri, popolarmente detta di San Filippino per le sue ridotte dimensioni. Fu fondata nel 1603 dal guantaio fiorentino Ratilio Brandi che la dedicò a San Trofimo, protettore degli affetti da gotta. Annesso vi fu costruito nel 1607 anche un ospedale per preti poveri ed un conservatorio per zitelle, posti sotto la protezione di San Filippo Neri, e così la chiesa fu dedicata al santo fiorentino. Nel 1853 tutto il complesso fu danneggiato da una inondazione del Tevere e fu ristrutturato per volere di Pio IX. La chiesa, restaurata nel 1993, presenta sopra il portale uno splendido ovale in stucco raffigurante "San Filippo accolto in cielo dalla Madonna e dal Bambino".


La chiesa di San Filippino

Quasi di fronte alla chiesa di San Filippino vi sono le Carceri Nuove, opera di Antonio Del Grande, fatte costruire da papa Innocenzo X Pamphilj nel 1655.



A quei tempi era ritenuto un carcere esemplare per il trattamento umano garantito ai detenuti, come si rileva dall'iscrizione sul portale: "Innocenzo X Pontefice Maximo eresse nell'anno del Signore 1655 il nuovo carcere, per la giustizia, per la clemenza e per una più sicura e umana custodia dei colpevoli". Alla morte del papa, avvenuta nel 1655, la fabbrica però non era ancora ultimata e fu terminata sotto il suo successore, Alessandro VII, che la utilizzò, prima ancora dello scopo per la quale era stata costruita, durante la peste del 1656 per quanti dovevano passare la quarantena. L'edificio funzionò come carcere fino al 1883, quando subentrò il carcere di Regina Coeli, e questo venne utilizzato solo come custodia preventiva. Successivamente fu utilizzato come carcere minorile finchè nel 1931 divenne la sede di un Centro di Studi Penitenziari con biblioteca specializzata e di un ricco Museo di storia criminale, in cui sono esposti tutti i tipi di supplizi applicati nei tempi antichi (tra questi il tremendo Toro di Falaride, tiranno di Agrigento nel VI° secolo a.C., che consiste in un toro di bronzo in cui venivano rinchiusi i nemici e sotto il quale veniva acceso un fuoco: i prigionieri arrostivano così dentro il toro di bronzo e le loro grida sembravano dei muggiti provenienti dal toro stesso;



vi si possono “ammirare” anche gli strumenti della famosa “saponificatrice di Correggio", che nel 1940 uccise tre donne e le saponificò, o delle curiose rivoltelle di mollica di pane, colorate con lucido da scarpe (come nel film di Woody Allen "Prendi i soldi e scappa"), fatte da ergastolani per poter minacciare i guardiani del carcere e tentare così l'evasione).
Una delle caratteristiche principali che di Via Giulia, che si può notare soltanto passeggiandoci, è che... non bisogna fidarsi della numerazione civica: infatti, a causa delle continue ristrutturazioni urbanistiche avvenute nel corso dei secoli, e soprattutto in occasione della costruzione dei muraglioni del Tevere, si possono notare dei "salti" di numerazione anche abbastanza notevoli. In più, in alcuni casi, i numeri pari e dispari sono "mischiati" tra loro e addirittura da un lato aumentano e dall'altro decrescono.
Due altre cusiorisà che caratterizzano Via Giulia sono la leggenda della mula del Protonotaro e la Chiesa di San Biagio della Pagnotta: si narra che la mula del Protonotaro apostolico Giovanni Bosselli, pur essendo un animale ibrido e, per questo, sterile, partorì un mulo; questo fatto venne considerato dal popolo di pessimo augurio e fu suggerito al protonotaro di disfarsi della mula. Questi non lo fece e dopo poco tempo venne disarcionato e ucciso a calci dalla mula stessa. Nella Chiesa di San Biagio, invece, il 3 febbraio si distribuivano ai fedeli delle pagnotte di pane (che andavano conservate per tutto l’anno e mangiate soltanto, a piccoli pezzetti, in caso di estrema necessità; si riteneva che questa pratica allontanasse le malattie della gola, infatti all’atto della consegna della pagnotta i fedeli venivano anche unti alla gola dal prete officiante).
In fondo alla strada, verso il Tevere, si incontra la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, fatta edificare dal Papa Leone X° Medici e nella quale si trovano i resti del Borromini, morto suicida a 68 anni vittima dell’ipocondria.

Altri particolari di Via Giulia e delle strade limitrofe

Madonnella di PiazzaFarnese con, sullo sfondo, il campanile tortile di Sant'Ivo alla Sapienza


Statua della chiesa svedese di Santa Brigida


Altra "madonnella" di Piazza Farnese (ce ne sono 3)


Particolari di facciate di palazzi di Via Giulia e delle sue traverse






Madonnella di Via di Monserrato





































Mi chiamo Mork, su un uovo vengo da Ork...

08 gennaio 2007

LE "MADONNELLE"

All’angolo o sulla facciata di quasi ogni palazzo del centro storico di Roma si possono notare delle edicole votive, dedicate per lo più alla Madonna (per questo i Romani le chiamano “Madonnelle”), a protezione del palazzo stesso o della strada.






Le tre "madonnelle" di Piazza Farnese

Questo vero è proprio culto era già in vigore al tempo dell’antica Roma (quando ai Lari erano dedicate delle aediculae, piccoli tempietti posti agli incroci delle strade).




Due "madonnelle" di epoca romana

Queste edicole erano dei veri e propri luoghi di culto presso cui si recavano i devoti, portando offerte varie (dalla frutta ed ortaggi agli animali da sacrificare e, successivamente soldi ed ex voto), per chiedere protezione. Diverse e specifiche corporazioni religiose si occupavano della manutenzione delle edicole e sembra che a quei tempi queste ultime fossero già diverse centinaia. In epoche successive, con la diffusione del cristianesimo, le immagini pagane poste ai crocicchi delle strade furono sostituite per lo più con quelle della Madonna.



Queste immagini sacre furono poste su mura, porte e facciate delle case, per porre queste ultime sotto la diretta protezione della Vergine.







Si trattava, nella maggior parte, di pitture abbastanza grossolane, fatte direttamente sui muri o su tavole di legno; per proteggerle dalle intemperie degli elementi alcune, soprattutto quelle poste in punti particolarmente ventosi o esposti alla pioggia o al sole battente, sono riparate da una piccola tettoia o un vero e proprio baldacchino.








Quattro esempi di Madonnelle con Baldacchino

Molte di queste edicole risalgono al cinque-seicento, quando parte dei palazzi del centro storico (come ho già detto nel post dedicato a Piazza Navona) vennero riedificati ad opera di potenti famiglie, e alcune di queste immagini sono legate al verificarsi d’eventi miracolosi. Al fine di verificare la veridicità di tali prodigi, fu istituita addirittura una speciale commissione papale, che, dopo studi e testimonianze di vaio genere, dichiarò “miracolose” quasi trenta di queste immagini. Si calcola che alla fine del 1.800 ve ne fossero in tutta Roma circa 3.000 mentre alla fine del XX° secolo, pur avendone oramai perse molte nel centro storico, estendendosi addirittura la tradizione al alcuni palazzi della nuova periferia romana, sembra si sia rimasti stabili su queste cifre






Tre madonnelle più "recenti"

(anche se, rispetto a quelle del Rinascimento, si è perso molto del carattere artistico nelle raffigurazioni e ci si limita a rappresentare il volto della Madonna "orante").





Non essendoci, per la maggior parte di queste edicole, più nessun addetto alla manutenzione, si può spesso notare che il dipinto è quasi completamente scomparso e rimane visibile soltanto la cornice di stucco che lo conteneva.